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Corte EDU, sez. I, 27 maggio 2021, ricorso n. 5671/16, J.L. c. Italia

Gli stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie violano l’art. 8 CEDU: la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo

Corte EDU, sez. I, 27 maggio 2021, ricorso n. 5671/16, J.L. c. Italia

Il caso

Nell’ambito di un processo penale in Italia, sette imputati, sono condannati in primo grado, esclusa la più grave fattispecie di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.), per violenza sessuale (art. 609-bis c.p.): si ritiene integrata, più esattamente la fattispecie di violenza sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (art. 609-bis c.p., secondo comma, n. 1 c.p.), posto che non era stata accertata la condotta di violenza o minaccia, descritta al primo comma dello stesso art. 609-bis c.p.

In secondo grado, la Corte d’Appello di Firenze assolve gli imputati. Per escludere la sussistenza di un abuso delle condizioni di inferiorità, i giudici valorizzano ampiamente alcuni aspetti della vita personale della presunta vittima: nella pronuncia si parla, ad esempio, della biancheria intima indossata e “mostrata” la sera della pretesa violenza, delle abitudini sessuali della ragazza, del fatto che la stessa avesse preso parte a un cortometraggio contenente scene di sesso violento.

Il ricorso

Divenuta definitiva la sentenza di secondo grado, la donna propone ricorso alla Corte EDU.

La ricorrente lamentava che i suoi diritti di vittima presunta, nell’ambito di un procedimento penale per violenza sessuale, non fossero stati adeguatamente tutelati dalle autorità italiane, con conseguente violazione dell’art. 8 CEDU.

Durante il processo, in particolare, la ricorrente avrebbe subito continue e ingiustificate ingerenze nella sua vita privata da parte delle autorità. Molte delle domande che le erano state rivolte, quali quelle relative ai suoi rapporti sessuali, al suo abbigliamento, alle sue abitudini alimentari, risultavano irrilevanti ai fini dell’accertamento dell’aggressione, mirando piuttosto a stigmatizzare il suo stile di vita e, quindi, a metterne in discussione la credibilità.

La decisione della Corte EDU

Con specifico riguardo alle modalità del processo, i giudici di Strasburgo rilevano come gli otto avvocati della difesa non abbiamo esitato per minare la credibilità della ricorrente, a interrogarla su questioni personali relative alla sua vita familiare, ai suoi orientamenti sessuali e alle sue scelte intime, a volte senza alcun rapporto con i fatti, il che è decisamente contrario non soltanto ai principi di diritto internazionale in materia di protezione dei diritti delle vittime di violenze sessuali, ma anche al diritto penale italiano (§ 132).

L’atteggiamento del Presidente del Tribunale e del Pubblico Ministero, ad ogni modo, non consente di ritenere che le pubbliche autorità abbiano in qualche modo contribuito alle modalità particolarmente penose che hanno caratterizzato il processo né che le stesse abbiano omesso di vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali della vittima nel corso del processo stesso.

La Corte EDU, piuttosto, focalizza la propria attenzione sulle decisioni giudiziarie adottate nel processo, per verificare se il contenuto delle stesse e il ragionamento su cui si è fondata l’assoluzione degli imputati abbiano leso il diritto dell’interessata al rispetto della sua vita privata e alla sua libertà sessuale e se l’abbiano esposta a una vittimizzazione secondaria.

I giudici di Strasburgo concludono che, in effetti, dalle argomentazioni delle sentenze pronunciate dalle autorità italiana traspaia chiaramente l’abuso di stereotipi sessisti, né utili per valutare la credibilità della ricorrente né determinanti per l’accertamento dei fatti.

Le azioni giudiziarie e le sanzioni penali, sottolinea la Corte in uno dei passaggi motivazionali indubbiamente più significativi, svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere. È quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia.

Da queste premesse deriva la condanna per violazione dell’art. 8 CEDU, il quale stabilisce che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata.

Si riportano qui di seguito i passaggi più significativi della sentenza:

136.  Ora, la Corte ha rilevato diversi passaggi della sentenza della corte d’appello di Firenze che evocano la vita personale e intima della ricorrente e che ledono i diritti di quest’ultima derivanti dall’articolo 8. In particolare, la Corte ritiene ingiustificati i riferimenti fatti dalla corte d’appello alla biancheria intima rossa «mostrata» dalla ricorrente nel corso della serata, nonché i commenti concernenti la bisessualità dell’interessata, le relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali di quest’ultima prima dei fatti (paragrafi 41 e 42 supra). Analogamente, la Corte ritiene inappropriate le considerazioni relative all’«atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso» della ricorrente, che la corte d’appello deduce tra l’altro dalle decisioni dell’interessata in materia artistica. Così, la corte d’appello cita tra queste decisioni dubbie la scelta di accettare di partecipare al cortometraggio di L.L. nonostante il suo carattere violento ed esplicitamente sessuale (paragrafo 46 supra) senza tuttavia – e giustamente – che il fatto di aver scritto e diretto il suddetto cortometraggio sia in alcun modo commentato o considerato rivelatore dell’atteggiamento di L.L. nei confronti del sesso. Inoltre, la Corte ritiene che il giudizio sulla decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che secondo la corte d’appello sarebbe risultato da una volontà di «stigmatizzare» e di rimuovere un «momento criticabile di fragilità e di debolezza», così come il riferimento alla «vita non lineare» dell’interessata (ibidem), siano ugualmente deplorevoli e fuori luogo.

137.  La Corte ritiene, diversamente dal Governo, che i suddetti argomenti e considerazioni della corte d’appello non fossero né utili per valutare la credibilità della ricorrente, questione che avrebbe potuto essere esaminata alla luce dei numerosi risultati oggettivi della procedura, né determinanti per la risoluzione del caso (si veda, mutatis mutandis, Sanchez Cardenas, sopra citata, § 37).

138.  La Corte riconosce che, nella fattispecie, la questione della credibilità della ricorrente era particolarmente cruciale, ed è disposta ad ammettere che il fatto di fare riferimento alle sue relazioni passate con determinati imputati o ad alcuni suoi comportamenti nel corso della serata poteva essere giustificato. Tuttavia, essa non vede in che modo la condizione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, i suoi orientamenti sessuali o ancora le sue scelte di abbigliamento nonché l’oggetto delle sue attività artistiche e culturali potevano essere pertinenti per la valutazione della credibilità dell’interessata e della responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si può ritenere che le suddette violazioni della vita privata e dell’immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire i diritti della difesa degli imputati.

139.  La Corte ritiene che gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenza di genere impongano anche il dovere di proteggere l’immagine, la dignità e la vita privata di queste ultime, anche attraverso la non divulgazione di informazioni e dati personali senza alcun rapporto con i fatti. Questo obbligo è, peraltro, inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale (paragrafi 57 e 62 supra) nonché da vari testi internazionali (paragrafi 65, 68 e 69 supra). In tal senso, la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio dell’indipendenza della giustizia, è limitata dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata dei singoli da ogni violazione ingiustificata.

140.  La Corte osserva peraltro che il settimo rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne e il rapporto del GREVIO, hanno constatato il persistere di stereotipi riguardanti il ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa della parità dei sessi. Inoltre, sia il suddetto Comitato delle Nazioni Unite che il GREVIO hanno segnalato il basso tasso di procedimenti penali e di condanne in Italia, il che rappresenta al tempo stesso la causa di una mancanza di fiducia delle vittime nel sistema giudiziario penale e la ragione del basso tasso di segnalazione di questo tipo di delitti nel paese (paragrafi 64-66 supra). Ora, la Corte ritiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla corte d’appello veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente (si veda, mutatis mutandis, Carvalho Pinto de Sousa Morais, sopra citata, § 54).

141.  La Corte è convinta che le azioni giudiziarie e le sanzioni penali svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro la disuguaglianza di genere. È pertanto essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria utilizzando affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici atte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia.

142.  Di conseguenza, pur riconoscendo che le autorità nazionali hanno vigilato nel caso di specie affinché l’inchiesta e il dibattimento fossero condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, la Corte ritiene che i diritti e gli interessi della ricorrente derivanti dall’articolo 8 non siano stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza della corte d’appello di Firenze. Ne consegue che le autorità nazionali non hanno protetto la ricorrente da una vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza costituisce una parte integrante della massima importanza tenuto conto, in particolare, del suo carattere pubblico.



Per approfondimenti ulteriori: L. D’Ancona, Vittimizzazione secondaria: la pronuncia della CEDU, in Quest. giust., 17 giugno 2021


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